mercoledì 19 agosto 2009

















































Offendicula
Non ho visto la performance, ma solo delle foto. Non so della tensione percorsa, della difficoltà del pericolo oggettivo, della reazione di chi guardava, del disinteresse o dell'interesse.
So solo della potenza dell'immagine e dell'idea.
Rivestirsi con aculei. Veri, in grado di pungere e ferire non solo chi sta intorno ma anche chi li indossa. E poi, questi aculei non sono fissati in modo così stabile: ondeggiano, si spostano, al punto che la tensione di chi li porta è più forte di quella di chi gli sta intorno e finisce per moltiplicare enormemente quella di chi guarda. Che significa? Perché indossarli?
C'é forse un senso di respingimento, difesa, reazione rispetto a ciò che ci circonda. Le barre di aculei sono oggetti reali che costruiscono la metafora di quella corazza di aggressività che indossiamo. “Corazza di aggressività”: le parole sono in contraddizione. L'aggressività si esprime, si esterna, in genere. Colpisce, stigmatizza, aggredisce; è qualcosa che va dal dentro al fuori. E' un approccio reattivo alle cose, ai problemi, alle insoddisfazioni, alle frustrazioni, alle ingiustizie. Una “corazza d'aggressività” implica un'idea diversa, decisamente più “contemporanea”, più tipica del nostro tempo e della nostra disgregata relazionalità. Una aggressività che implode, che protegge: gli aculei respingono per proteggere, per salvare un nucleo di identità, per far si che non sia toccata mai davvero quella parte di autentica sensibilità che riteniamo possa essere ferita, che consideriamo la nostra “debolezza”.
Da cosa la proteggiamo? Dalle relazioni non chiare e distorte, dalle incomprensioni, dal “non vero”, dalle supponenze,che quotidianamente attraversiamo, che subiamo. “Non mi toccate, potreste pentirvene”: è il grido egotista del singolo. “Non vogliamo toccarci”, è la rappresentazione in esteso della relazione tra individui. Il lavoro di Colangelo visualizza fisicamente così uno stato drammatico dell'interpersonalità dei nostri tempi. E fin qui, è chiaro: quegli aculei sono la denuncia di uno stato, di un malfunzionamento, di una solitudine costruita come protezione dalla relazione, ma che implode fino a celare, impedire la relazione tra le identità credendo di proteggere qualcosa che riteniamo sia debole di noi stessi.
Ma attenzione: quella cosa che ci protegge dagli altri, che segna il nostro aggressivo distacco con la relazione è implicitamente quella stessa cosa che causa il nostro pericolo e la nostra sofferenza, la nostra tensione, il nostro impaccio, la nostra paura di ferirci. L'icona di Colangelo è esattamente la rappresentazione dell'autocondanna a cui l'egotismo ci porta: più costruiamo difese aggressive, più restiamo (e diventiamo) rigidi, impacciati, paurosi, condannati alla concreta possibilità di farci del male, incapaci di un gesto che non sia costretto, attento e pesato. Quello che abbiamo eretto a protezione cattiva dagli altri diventa realisticamente, l'unica cosa in grado di ferirci profondamente, nell'intimo e per questo, non sappiamo più muoverci come “esserei umani”, come creature naturali ma solo come caricature e burattini impacciati manovrati dai fili della nostra stessa incomunicabile autoreferenzialità.
Come spesso accade nelle opere e nelle intuizioni concettuali di Colangelo la provocazione, la sgradevole stilettata che le sue opere performative e non, procurano alla coscienza e al nostro mal - essere, chiama necessariamente la compensazione e la verità del contrario. Sappiamo cosa siamo e interiorizziamo cosa non dovremmo essere, sappiamo che siamo capaci di questo e vorremmo smettere di esserlo. Solo una profonda intelligenza del dramma della realtà riesce a far diventare una provocazione non un mero gesto di spettacolo ma l'occasione concreta di “cambiare visione” di se stessi e degli altri.
Un'altra notazione che ritengo importante: questa non è una “rappresentazione” di un concetto ma la sua personificazione vissuta, costata rischio e fatica, pericolo e tensione in chi la ideata. E' un modo per dire che l'artista non si sottrae, si fa voce e corpo dell'idea. E' il contrario di tanto concettualismo modaiolo contemporaneo, ben venduto “a la carte” per i consumatori di belle confezioni: è un atto di responsabilità sociale, etica e morale a cui non ci si può sottrarre, anzi che acquista senso pieno perché attuato sulla propria pelle, secondo la geniale intuizione dell'arte della performance e della body art. Colangelo è ancora uno dei pochi artisti che non “predica” ma si fa ancora una volta, esempio e figura di ciò che l'uomo è nel bene e nel male e che noi non riusciamo ad essere perché forse non sappiamo più prenderci la responsabilità di scegliere per cosa vale la pena vivere.
Ponendoci ancora una volta sotto gli occhi le conseguenze dei nostri piccoli e grandi egoismi che ergiamo a protezione e definizione di uno spazio umano intoccabile e “self - centred”, la nostra identità si condanna da se stessa a ferirsi e a togliere ogni armonica fluidità al nostro Essere, non facendoci più apparire umani, ma una sorta di giocattoli meccanici spaventati dalle paure che ci siamo costruiti.
Questa concettualità tesissima contenuta in questa performance dimostra così di avere un “télos”, un fine etico necessario che ci pone di fronte alla scelta di cosa siamo e di cosa poter essere, verso se stessi e verso gli altri ma anche alla denuncia di un modo di concepire il vivere che è senza orizzonti e condanna.
Antonio Zimarino ( 15 agosto 2009)